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Martina Petrucciani

  • Adolescenza e comportamenti a rischio vittimizzazione

    adolescenza e comportamenti a rischio

    Nel nostro blog abbiamo parlato spesso di adolescenza e comportamenti a rischio devianza.

    Abbiamo trattato di bullismo, cyberbullismo, dipendenze, con particolare attenzione alla prevenzione degli atti antisociali e devianti.

    In questo articolo vorremmo porre alla vostra attenzione un altro tipo di rischi: i rischi della vittimizzazione.

    Abbiamo parlato di vittime di bullismo e di come attivare strategie di contrasto e di rinforzo delle proprie risorse personali.

    Qui parleremo un po’ di alcuni pericoli che caratterizzano la quotidianità dei ragazzi: le trappole che si nascondono in rete, nei social network, nel gioco online.

    Il caso

    E’ di poche settimane fa la notizia relativa ad un tentativo di adescamento online, ad opera di un uomo adulto, nei confronti di un bambino di circa 8 anni, frequentante un Istituto Comprensivo di Modena.

    Per alcuni giorni si è diffusa, infatti, sui social network, la circolare emessa dalla Dirigente dell’Istituto, per rendere noto l’episodio a tutti i genitori, mettendoli in guardia dell’accaduto.

    Il tentativo di adescamento sarebbe avvenuto all’interno della chat dell’applicazione Tik Tok, scoperta dal padre sul cellulare del bambino.

    Posta la questione alla nostra attenzione, abbiamo deciso di preparare un Progetto di sensibilizzazione sui pericoli del web, rivolto a bambini e genitori, in diverse palestre di Modena e Provincia.

    Quando si parla di adolescenza e comportamenti a rischio è necessario ricordare sempre che vi sono tanti pericoli a cui i ragazzi sono esposti e in cui possono incorrere, se non ben educati a riconoscerli e denunciarli.

    Web, adolescenza e comportamenti a rischio

    Ci troviamo oggi nel pieno di una rivoluzione digitale caratterizzata da grande velocità nel cambiamento, prodotti tecnologici sempre nuovi, innovazioni che richiedono sempre più competenza.

    La rivoluzione virtuale è certo indice di un progresso, anche scientifico, molto importante, ma che porta con sé fattori di rischio da non sottovalutare.

    È del grande studioso Zygmunt Bauman, importante multipremiato sociologo, scomparso nel 2017, che vi consiglio la lettura!

    Il suo libro “Modernità liquida” descrive, infatti, una società circondata da caos e caratterizzata dal disorientamento.

    In un certo senso, è a questa condizione che l’ondata di progresso tecnologico può portare noi ed i nostri ragazzi, se non faremo qualcosa per sensibilizzarci ed educarci al loro uso.

    Se parliamo di adolescenza e comportamenti a rischio, parliamo necessariamente di quelli che sono stati definiti “i nuovi adolescenti”, i figli del progresso virtuale, i nati dopo il Duemila, fino ad arrivare ai bambini “che nascono con il telefono in mano”.

    Nonostante sia innegabile il contatto precoce dei bambini con le nuove tecnologie, non si può d’altro canto definirli geni futuristi poiché la loro capacità di riconoscere uno smartphone o muovere sopra di esso il dito, nel tentativo di sbloccarlo, non è altro che una normale reazione di apprendimento a ciò che osservano dagli adulti!

    È proprio dall’osservazione anche i bambini più piccoli cominciano ad identificare lo smartphone come un qualsiasi altro oggetto d’uso quotidiano: un cucchiaio, un telecomando, per esempio.

    Ciò che nei nostri interventi facciamo presente ai genitori è il grande divario generazionale che si è creato tra i “figli della rivoluzione online” e gli adulti, i genitori.

    Tale distacco alimenta la mancanza di comunicazione, di interesse, di spazi di dialogo genitori-figli ed amplifica l’esposizione ai comportamenti a rischio vittimizzazione.

    I rischi del progresso

    Vogliamo riportarvi due dei principali rischi a cui possono incorrere i ragazzi nel web: il cyberbullismo e l’adescamento online a scopo di produzione di materiale pedopornografico.

    Che si adoperi un telefonino, un computer o una consolle, diversi sono i canali con cui addentrarsi nel “deep web”, nel profondo mondo della rete, dell’online, del virtuale.

    Avere il controllo di ciò che i nostri figli fanno sulla rete, monitorare i loro comportamenti online, non significa violare la loro privacy bensì proteggerli ed educarli verso un uso corretto e consapevole.

    Si rivela necessario imporre regole educative e limiti all’uso dei dispositivi tecnologici e di Internet già dalla prima infanzia.

    È nostra responsabilità, degli adulti, accompagnare i ragazzi e non lasciarli soli in questa rivoluzione tecnologica. Vediamo assieme alcuni dei rischi a cui è possibile incorrere:

    • Tentativi di adescamento online su chat room o forum virtuali, presenti anche in diversi giochi online;
    • Dipendenza da gioco e da Internet, modificazioni del comportamento, dell’umore;
    • Truffe online, phishing, furti di dati personali;
    • Dipendenza da social network;
    • Incorrere in profili ed identità false;
    • Subire cyberbullismo all’interno di chat di gruppo di WhatsApp.

    Conseguenze della vittimizzazione virtuale

    Nelle giornate del 24, 25, 26 ottobre abbiamo partecipato al Congresso della Società Italiana di Criminologia, che si è tenuto a Modena, con particolare attenzione ai nuovi rischi nel digitale.

    Ha parlato di adolescenza e comportamenti a rischio il dottor Giovanni Ziccardi, docente di informatica giuridica all’Università di Milano, massimo esperto di cybercrime ed autore di fantastici saggi, di cui consigliamo la lettura.

    Ziccardi elenca alcune delle conseguenze di una vittimizzazione online, come:

    • L’amplificazione del danno creato;
    • La viralità dell’informazione e della fotografia oggetto di violenza;
    • Il disimpegno morale di chi commette il fatto, dovuto alla distanza tra vittima e perpetratore
    • L’anonimità, spesso garantita, di chi commette cyberbullismo.

    I videogiochi online

    Parlare di adolescenza e comportamenti a rischio è anche parlare di dipendenza da videogiochi; ci sentiamo di esprimere due parole in merito.

    È notizia di queste ore che il Governo cinese abbia introdotto nuove misure restrittive sui video game, nel tentativo di frenarne la dipendenza nei giovani giocatori.

    La Cina ha difatti vietato il gioco online nelle ore notturne ed ha imposto un tetto di spesa ed un budget massimo per gli acquisti online.

    Che sia uno strumento di controllo utile per il contrasto dei comportamenti a rischio?

    Secondo noi non è necessario demonizzare la tecnologia né impedirla bensì educare ad essa fin da subito!

    Trascorrere molte ore in modo sregolato e non controllato davanti ai videogiochi, spesso violenti e spara-tutto, non è mai consigliato!!

    Ma non è solo la violenza il problema; qualsiasi dipendenza dallo schermo può causare ritardi nello sviluppo ed avere conseguenze nefaste, in un momento di crescita e sviluppo cerebrale massimo.

    Ciò che ci sentiamo di consigliarvi è di conoscere i giochi che acquistate ai vostri figli, di informarvi sui rischi dei social network, sul funzionamento delle chat online, di essere presenti, con interesse, di continuare a rappresentare un riferimento insostituibile da qualsiasi tipo di tecnologia!

    Per informazioni pratiche, strumenti di parental control, corsi o seminari contattaci!

    Bibliografia.

    Bauman Z. (2002) Modernità liquida, Laterza.

    Ziccardi G., (2014) Entro 48 ore, Gli specchi.

  • La crescita personale di genitori e figli per superare le difficoltà

    la crescita personale

    Responsabilità, autostima, controllo e pensiero positivo sono ingredienti segreti per implementare la crescita personale di un genitore ma anche per sostenere la crescita dei figli, nel loro percorso di vita.

    Vediamo insieme ciascuno di questi elementi, così come influenza le nostre performance, i nostri comportamenti e le nostre emozioni.

    Come interpretiamo gli eventi

    Nell’articolo sul cambiamento personale abbiamo già visto in che maniera i nostri pensieri influiscono su ciò che ci accade, nel bene e nel male.

    Esiste questo atteggiamento mentale grazie al quale, o a causa del quale, interpretiamo gli avvenimenti e ne determiniamo anche i risultati.

    La potenza del nostro pensiero è davvero importante!

    Pensate a volere smettere di fumare: l’elemento determinante per uscire da una dipendenza è la convinzione mentale.

    Se tuo figlio va sempre male nelle interrogazioni di matematica è possibile che non investa tempo nella preparazione, tanto “andrà male, perché è sempre così”.

    Beh allora spieghiamo ai figli che cambiando alcune convinzioni cristallizzate, anche le loro performance potrebbero cambiare!

    La crescita personale di un genitore deve tenere conto di questo principio, anche per meglio indirizzare il figlio verso una propria crescita a sua volta.

    Pensate positivo!

    Pensate all’effetto placebo: se sono convinto di bere acqua con vitamine mi sentirò più stimolato anche se non c’è nulla dentro a quel bicchiere se non semplice acqua frizzantina!

    Ricordate le profezie che si auto-avverano? Ne abbiamo parlato nell’articolo sulle risorse personali; le nostre percezioni sugli eventi e le convinzioni influenzano gli eventi. Ma in che modo?

    1. Associamo uno stimolo ad una reazione che si ripete in base alla nostra esperienza (davanti al compito di matematica reagisco con chiusura e rifiuto, perché “tanto non va mai bene”);
    2. La percezione che ho del compito è negativa e la mia emozione sarà negativa, provo tristezza, disgusto, paura, rabbia;
    3. Le emozioni provate provocano modificazioni fisiologiche di stress, ansia, tensione;
    4. Vi è una modifica del funzionamento biochimico del cervello, in conseguenza all’attivazione di tali emozioni;
    5. In conclusione, la mia mente e il mio corpo portano ad un fallimento nel compito di matematica!!!

    Percezioni, convinzioni e neuroscienze

    Le convinzioni negative dunque agiscono sul nostro cervello!

    L’emozione comporta cambiamenti nell’organismo animale e umano, che fanno riferimento al sistema nervoso: amigdala ed ippocampo sono le parti del cervello più fortemente influenzate.

    Gli stati d’animo e le emozioni veicolano neurotrasmettitori che modificano il corpo.

    Gli stimoli agiscono sul cervello ed esso si adatta alle esperienze creando continuamente nuovi neuroni.

    L’esperienza crea nel cervello nuove strutture neurali, perciò in ogni situazione simile reagiamo allo stesso modo e col tempo cristallizziamo i nostri comportamenti!

    Consigli pratici per agire sul pensiero

    Nel processo del cambiamento, la crescita personale può partire dai concetti della Mindfulness: i pensieri vanno e vengono, cerchiamo di non reagire ad essi!

    Provate a cercare di distanziarvi dal pensiero negativo per vederlo sparire…

    Proviamo a decentrarci, accettiamo i sentimenti spiacevoli, non ci identifichiamo con essi!

    La crescita personale vostra e dei vostri figli deve proseguire in questa direzione, per riconoscere ed affrontare le difficoltà. Pensate al compito di matematica tanto temuto:

    “Provate a modificare la vostra convinzione, trasformate la percezione e la paura del fallimento in determinazione, e osserverete un cambiamento nel risultato!”

    In soldoni dobbiamo essere convinti che ce la faremo e che le cose andranno bene!! 😉

    Abbiamo parlato del pensiero. Ma per rafforzare la crescita personale di ciascuno di noi, vediamo insieme altri capisaldi: responsabilità, autostima e controllo.

    La responsabilità è nostra

    Per crescere e migliorare le nostre prestazioni dobbiamo avere la convinzione che esse dipendano da noi e dunque la responsabilità degli eventi che ci capitano è esclusivamente nostra.

    Se la causa del nostro fallimento nel compito di matematica è del professore, del poco tempo a disposizione, di un compagno che mi ha distratto, non potrò mai responsabilizzarmi e portare avanti con fermezza il mio cambiamento.

    La crescita personale comincia sempre con un processo di consapevolezza sulle proprie responsabilità.

    Possiamo cambiare e condizionare gli eventi che siamo convinti dipendano da noi.

    Dobbiamo trovare dentro di noi, nel nostro atteggiamento, le cause di un fallimento, per cominciare a cambiare le cose!

    Non c’entra la fortuna, il fato, il caso, una serie di coincidenze che si susseguono.

    Cominciamo da questo, per rafforzare la nostra responsabilità genitoriale e sostenere la crescita personale dei nostri figli.

    D’altro canto, dobbiamo accettare che ci sono delle cose che non possiamo controllare ed è necessario fare intervenire un aiuto esterno, se la situazione è fuori dal nostro controllo; il rischio è un senso di frustrazione e stress e ricordate che ne risponde anche il vostro corpo!

    Forza e coraggio, autostima e auto-efficacia

    Dalla nascita tutti noi sviluppiamo una forte motivazione ad impegnarci nel controllare le cose e ad acquisire nuove capacità.

    È molto importante che i genitori sostengano questo processo nei piccoli, la voglia di scoprire, la curiosità, fare esperienza.

    Come abbiamo detto in un articolo sulla resilienza nei bambini, è importante cadere e rialzarsi da soli, alcune volte, per rafforzare la propria convinzione di farcela.

    È questo il significato del concetto di auto-efficacia, è la convinzione di farcela, di essere efficaci.

    I bambini imparano presto se possono ottenere qualche risultato, oppure no. Come sostengono i pedagogisti:

    “L’auto-efficacia viene trasmessa già ai lattanti, è la fiducia a superare i propri problemi”

    Per favorire la crescita personale di un bambino, questo non deve essere mai inibito o può generare un futuro individuo passivo, scarsamente resistente.

    “Questa responsabilizzazione precoce favorisce lo sviluppo dell’auto-efficacia e della perseveranza”

    Sapere di potere risolvere le cose, di valere, aumenta la propria autostima e motiva al rendimento, aiutando a superare le sconfitte.

    L’impotenza appresa

    Se prendiamo continuamente il controllo delle situazioni difficili che riguardano i nostri figli, non lasceremo mai loro spazio per imparare ad affrontare le difficoltà e una volta nel mondo esterno, non protetto, non saranno in grado di reagire.

    In mancanza di resistenza psichica, un ragazzo prova apatia, azzeramento di auto-efficacia, aumenta la sua vulnerabilità fisiologica: anche in condizione di disagio non fa niente per salvarsi!

    Questo concetto si chiama impotenza appresa: è ciò che imparano i figli in un ambiente spesso iperprotettivo, in cui i genitori impediscono qualsiasi esperienza possa esporli a pericolo, stress e frustrazione.

    Sviluppo dell’autostima, resistenza psicologica, coraggio, responsabilità e pensiero positivo costituiscono la ricetta per un percorso di cambiamento personale.

    Modellare e sviluppare queste caratteristiche già da bambini è il segreto per affrontare serenamente le difficoltà quotidiane, soprattutto nel periodo delicatissimo dell’adolescenza.

  • Risorse personali ed educazione alla resistenza psicologica

    risorse personali

    Il tema delle nostre risorse personali va di pari passo con quello della resilienza o resistenza psicologica.

    Tante sono le difficoltà legate a questa condizione, ma la buona notizia è che noi siamo stati progettati per affrontarla con successo!

    Innata o no, la seconda buona notizia è che si tratta di una capacità che si può sempre migliorare e fortificare.

    È dunque per noi stessi, per il nostro cambiamento personale e per l’educazione ed il sostegno verso i nostri figli che è necessario acquisire questa caratteristica.

    Tra le risorse personali la più… particolare è proprio questa Resilienza, definita come la capacità di piegarsi senza spezzarsi.

    Ed è la mia preferita! 😉

    Conoscete la resilienza….

    Tante sono le risorse personali necessarie per affrontare i momenti più difficili della nostra quotidianità, ma è importante ricordare che dietro ogni “Crisi” si nasconde una “Opportunità”.

    Una Crisi comporta sempre una “Scelta”: singole frustrazioni quotidiane a scuola tormentano i vostri figli oppure hanno dovuto affrontare traumi non da poco, è bene, da genitori, sapere che c’è sempre una via di uscita!

    Una forza che si trova dentro di noi, dentro a ciascun genitore che sta attraversando un periodo di separazione o di divorzio, dinamiche familiari conflittuali o perdite, dentro a ciascun bambino coinvolto in violenza assistita o ragazzo vittima di bullismo.

    Siamo accanto e dentro ai nostri figli: noi conosciamo lo stress lavorativo e loro lo stress scolastico, noi ci misuriamo con le richieste articolate del capo e loro con i risultati scolastici.

    E per affrontare tutto ciò è necessario essere uniti, comunicare in modo funzionale, ascoltarsi ed implementare insieme la resilienza.

    Biogenetica delle risorse personali

    Le risorse personali di ciascuno di noi si apprendono e solidificano attraverso l’esperienza.

    Alcune sono genetiche, ereditarie, trasmesse dai nostri genitori.

    Tutte possono essere potenziate, se ci impegniamo!

    Studi sul cervello

    Bambini che in condizioni iniziali devastate possono sfuggire il destino disastroso, Emmy Werner lo dimostra. Anche se le condizioni di partenza sono tanto brutte, ci sono persone che riescono apprendere il controllo della propria vita.

    Il criminologo Friedrich Losel ha cercato di capire quali possibilità abbiano bambini provenienti da un ambiente sociale difficile di condurre la loro vita in modo diverso nel futuro.

    Ebbene, è stato provato che ci sono bambini che hanno inclinazione a cavarsela bene anche in presenza di condizioni familiari negative!

    Certo, le statistiche sociologiche dimostrano prevalentemente il contrario, ma almeno possiamo negare la correlazione tra maltrattamento in infanzia e disturbi nell’adulto.

    Addirittura è stato dimostrato che alla base di una predisposizione a soffrire più lo stress e dunque ad essere meno resiliente ci sarebbe una modificazione del cervello.

    Da un esperimento su piccoli roditori si è dimostrato che a causa di piccole mutazioni generiche alcuni sono predisposti a male tollerare le avversità della vita, in seguito ad un abuso nell’infanzia.

    Effetti dell’educazione all’affettività

    “La difesa più grande in assoluto nella vita è la formazione”

    I fattori ambientali incidono sulle nostre risorse personali: anche le personalità deboli possono superare le crisi grazie al sostegno del proprio ambiente.

    Anche in un ambiente terribilmente negativo si dà la possibilità di uno sviluppo sano; non tutti i bambini maltrattati diventano a loro volta violenti!

    Questo perché l’educazione ed il sostegno emotivo-affettivo hanno una grandissima potenza nel migliorare la vita dei bambini.

    Una ricerca svolta all’interno di una comunità in Germania ha mostrato che alcuni ragazzi hanno sviluppato, in età adulta, comportamenti violenti o dipendenze.

    Quasi la metà dei ragazzi, quelli che hanno potuto incontrare una buona famiglia affidataria con la quale sviluppare una buona relazione, non ha sviluppato disturbi.

    Di fatti, le maggiori statistiche presentano, in ragazzi abbandonati o cresciuti soli, una maggiore probabilità di diventare vittime croniche o di sviluppare disturbi psichiatrici.

    È negli anni ’80 che i ricercatori sottolineano l’importanza del contatto fisico per un sano sviluppo del bambino!

    Durante un esperimento svolto in un orfanotrofio di Bucarest, alcune famiglie adottive vennero istruite con l’indicazione di dare particolare affetto ed attenzione ai figli adottati.

    Nell’arco di 20 mesi dal Progetto, il Q.I. di questi bambini aumentò e diminuì l’incidenza di disturbi legati a paure e fobie.

    ….Per insegnarla ai vostri figli

    Seneca diceva: “le difficoltà rafforzano la mente, così come il lavoro irrobustisce il corpo”.

    Nella società di oggi siamo concentrati sul tutto e subito, le teorie sociologiche descrivono una società in velocissimo cambiamento, in cui pretendiamo egoisticamente, senza adattarci mai.

    Saper incassare e stringere i denti, incamerare delusioni e sconfitte sono capacità che non esistono quasi più.

    È qui che crescono i bambini di oggi; hanno tutto ciò che vogliono.

    In questa società, sempre più, i genitori adottano modelli educativi di iperprotezione, con la conseguenza di allevare ragazzi impulsivi, aggressivi e insicuri.

    È un istinto naturale del bambino quello di provare a fare le cose da sé: se non sostenuto c’è il rischio che con la crescita egli mostri passività e poca resistenza psicologica.

    Crescendo protetti da tutte le frustrazioni, non sviluppano sufficienti risorse personali; da grandi saranno dunque adulti delusi, che rischiano un vero e proprio trauma a contatto con il mondo esterno.

    Non è necessario per forza privarsi di tutto per coltivare la resilienza, ma come diceva Confucio:

    “Lascia che i figli abbiano sempre un po’ di freddo e un po’ di fame”

    Una certa abitudine e dimestichezza con il disagio e i sacrifici in tenera età aiutano a costruire l’antidoto al senso di frustrazione da adulti.

    Il sostegno delle risorse del bambino si accompagna con il processo di autonomia e responsabilizzazione. Nel mondo reale mamma e papà non ci saranno sempre, dunque:

    “Per ottenere ciò che si desidera è necessario faticare e soffrire un po’. Fattene una ragione, perché non c’è alternativa!”

    Sostenere questo davanti ai vostri figli li aiuta a prepararsi all’adattamento e alle strategie necessarie per fronteggiare tutte le difficoltà della vita.

    La vita non ti vizia!

    Gli studi della psicoanalisi, con Freud, spiegano che, alla nascita, siamo caratterizzati dal “principio del piacere”, per il quale vogliamo vedere realizzati immediatamente tutti i nostri desideri.

    Questo avviene quando un bambino piange e la mamma lo prende in braccio, assecondando il suo bisogno di attenzioni, il bimbo smette di piangere.

    Durante la crescita è necessario però sostituire questo funzionamento con il “principio di realtà”.

    L’educazione genitoriale per lo sviluppo delle proprie risorse personali è davvero determinante per riuscire ad aspettare e sopportare.

    Implementare la capacità di tollerare il disagio e di accettare la fatica è il trucco per aumentare la resistenza psicologica.

    È solo attraverso il lavoro umile, i sacrifici ed i fallimenti, che si impara il rispetto per tutti gli uomini.

  • Cambiamento personale: breve guida per conoscerne i segreti

    cambiamento personale

    In questo articolo vorrei parlarvi di cambiamento personale, sperando di potere rispondere alle vostre necessità personali di cambiamento 🙂

    Parto con un esempio: alcuni genitori ci hanno scritto chiedendoci “mi riconosco come troppo permissivo, come posso fare per modificare questo aspetto?” oppure “come posso rendermi un genitore più aperto e disponibile?”.

    Le nostre caratteristiche di personalità ed i nostri stili comunicativi, di cui abbiamo parlato nell’articolo sulla comunicazione funzionale, in età adulta sono già formati e risultano difficilmente modificabili.

    Quindi, se ho uno stile caratterizzato da reazioni aggressive e mi arrabbio molto quando mio figlio fa i capricci, non potrò mai modificare questo mio atteggiamento?”

    A questa domanda, nello specifico, abbiamo risposto, qualche giorno fa, in questo modo:

    Ogni comportamento può essere modificato in una direzione o in un’altra, ma è importante essere consapevoli che operare un cambiamento personale comporta dei sacrifici, necessita di una dose iniziale di coraggio, tanta fiducia in sé stessi, la convinzione che quel miglioramento porterà a benefici chiari e calcolabili e tantissima motivazione”.

    Dunque non è per niente facile e immediato, ma un cambiamento è sempre possibile!

    Infatti consapevolezza, sacrificio, coraggio, forza di volontà e motivazione sono caratteristiche che possiamo sempre sviluppare o migliorare, ma necessitano di metodo, tempo e costanza.

    Cadere è normale, insomma, ma è importante sempre rialzarsi per raggiungere il proprio obiettivo.

    I fallimenti lungo il percorso che è la vita sono naturali, errare è umano, sbagliare è sano e fortifica la crescita, se guidati nel modo giusto ed è bene accettarli come parte della nostra sfida di cambiamento.

    Dunque SI! caro genitore, puoi modificare il tuo atteggiamento. Vediamo insieme come farlo!

    I segreti del cambiamento personale

    Le abitudini, la quotidianità, le nostre routine, i comportamenti che mettiamo in atto in risposta a determinati stimoli, sono tutti ostacoli al nostro obiettivo di cambiamento.

    I nostri comportamenti, infatti, sono frutto dell’apprendimento, da quando siamo piccoli, dell’imitazione dei nostri adulti di riferimento, dei compagni di scuola e gli amici, che integrano le nostre conoscenze e le nostre idee e inevitabilmente le influenzano.

    Diverse sono le correnti di studio del comportamentismo che ci spiegano come apprendiamo un comportamento da piccoli, in modo più o meno volontario, e come esso viene nel tempo cristallizzato, grazie ai rinforzi che ci vengono proposti.

    Il comportamentismo spiega che, imparando a riconoscere un determinato stimolo, positivo o negativo che sia, durante la crescita apprendiamo, anche attraverso l’esperienza, a reagire ad esso in un determinato modo e così ci abituiamo piano piano ad associare lo stesso stimolo alla stessa reazione.

    E’ così che nascono i comportamenti umani.

    È chiaro che quanto più le abitudini comportamentali sono forti, tanto più sarà difficile mettere in atto un cambiamento personale!

    Ecco perché non ce la fai

    Vorrei analizzare qui alcuni principi che rendono molto più difficile perseguire il nostro obiettivo di cambiamento.

    • A causa del Principio del Verificazionismo siamo portati a cercare qualsiasi prova, affinché la nostra idea e la nostra convinzione siano confermate. La nostra ipotesi rispetto ad un evento viene così convalidata, escludendo ogni altra possibilità.

    Attraverso questo processo di pensiero saremo portati ad effettuare diversi ragionamenti logici, ma ATTENZIONE! È un trucco della nostra mente, un meccanismo inconscio che ci frega!

    Lasciamoci andare a idee differenti, usciamo un po’ dalla nostra zona di comfort!

    E’ importante pensare che esista un’alternativa, così impariamo piano piano a considerare prospettive diverse dalla nostra e smantelliamo le nostre convinzioni, poiché esse ci allontanano dal nostro obiettivo di cambiamento personale.

    • L’Euristica di Pensiero è un modo di pensare automatico, basato sulle esperienze vissute; è una strategia di giudizio che ci porta, ad esempio, a sovrastimare l’accadimento di qualche evento, anche senza avere fatto prima una stima di probabilità.

    Le euristiche di pensiero sono anche definite bias cognitivi: non c’entrano nulla con il pensiero critico logico e con la ragione, bensì si basano su pregiudizi ed ideologie, che semplificano la presa di decisione.

    I bias sono errori, scorciatoie mentali che ci aiutano a convincerci di alcune cose (ad esempio che ce la faremo o no) ma non sono frutto di una valutazione razionale tra pro e contro o tra benefici e costi, bensì trappole mentali.

    • Il fenomeno della Fallacia di Gabler, è la tendenza a dare rilevanza a ciò che ci è accaduto in passato, così che i giudizi attuali risultano completamente influenzati da esperienze passate, da nostri fallimenti pregressi, ad esempio.
    • Il pensiero negativo, è un Bias della Negatività: molto banalmente, è la considerazione di essere portatori sani di una macchietta della sfortuna.. Comincia a cambiare tu stesso per primo il tuo pensiero, vedrai come cambieranno le cose!!!
      Non mi credi?
      Fai una prova!!

    La profezia che si auto-avvera

    Con Profezia che si auto-avvera definiamo una situazione che, solo perché siamo convinti che si verificherà, si realizzerà in concreto di conseguenza.

    Se siamo convinti di non riuscire nel nostro obiettivo di cambiamento personale, bene! ..faremo di tutto per non riuscirci!

    La psicologia sociale ha studiato che le nostre convinzioni hanno una grandissima influenza sulla realtà: gli schemi stabili e rigidi dei nostri comportamenti cristallizzati, orientati in direzione di una nostra convinzione, possono essere profetici!!

    Se dite:

    Non ci riuscirò mai”; “Fallirò come le altre volte”; “Non troverò mai parcheggio”; “Se mangio quel cibo mi verrà sicuramente mal di stomaco”.

    Provate a dire:

    Mi impegno al massimo, sono determinato a riuscirci!”; “Questa volta sarà diverso!”; “Basta impegnarsi, sicuramente troverò parcheggio“; “Non starò sicuramente male questa volta!”.

    E fatemi sapere! 😉

    Come puoi fare: comincia così!

    Ecco alcuni segreti che ti fornisco per cominciare il tuo percorso di cambiamento:

    1. Inizia a cambiare la convinzione che hai di te stesso.

    Sei capace! Puoi farlo! Fai un altro tentativo! Non giudicare mai la tua persona: non dire “sono cattivo” ma ripetiti “ho un comportamento inadeguato”. Convinciti che è necessario cambiare per te stesso, per i tuoi figli e il benessere della tua famiglia.

    1. Fai piccoli passi per volta.

    Non cambierai dall’oggi al domani. Siediti, prendi carta e penna e scriviti i temperamenti e i comportamenti che vorresti cambiare. Riconosci i momenti in cui li metti in atto durante la giornata e crea piccoli step di cambiamento.

    Una cosa alla volta, una regola dopo l’altra, ma fai con calma e monitora ogni miglioramento, premia ogni tuo piccolo successo!

    1. Dialoga con tuo figlio.

    Se la sua età lo permette, spiega a tuo figlio la motivazione del tuo cambiamento personale: perché è importante per te cambiare? Come migliorerà questo il vostro rapporto?

    Includere tuo figlio aiuterà a siglare tra voi un nuovo patto di fiducia; è un atto di umiltà e perché no… di amicizia!

    1. Contattaci!

    Se vuoi misurare le tue abilità educative, chiederci un consiglio sulle tue reazioni o cerchi un sostegno per il tuo percorso di cambiamento, contattaci, scrivici una email!

  • Comunicazione verbale e non verbale a confronto nell’emozione di rabbia

    comunicazione non verbale e verbale

    Paul Watzlawick, psicologo e filosofo austriaco, naturalizzato americano, ci ha insegnato importanti concetti legati alla comunicazione.

    Non si può non comunicare” è uno dei principali assunti dello studioso ed è così: con qualsiasi atteggiamento si ha una comunicazione!

    Anche il silenzio rappresenta una forma di interazione (non verbale), facendo riferimento ad un’arma importante nella gestione dei conflitti: l’indifferenza.

    In questo articolo vediamo le differenze tra la comunicazione non verbale e verbale e la loro importanza nelle interazioni tra le persone.

    Il senso di ciò che diciamo

    Quello che abbiamo comunicato è quello che l’altro ha capito.

    Ma cosa significa? Vi ricordate l’articolo sulla comunicazione funzionale?

    Abbiamo detto che nella prevenzione del conflitto intrafamiliare è necessario lavorare alle modalità di relazione ed interazione tra i familiari, applicando le tecniche della comunicazione funzionale.

    Il messaggio che emettiamo verso un soggetto destinatario viene da questo recepito secondo la propria interpretazione di senso.

    E questa interpretazione può non corrispondere al significato originario che noi abbiamo dato al messaggio comunicato.

    Qui si inseriscono i giudizi e le critiche percepite dalle persone persone nel comunicare con gli altri.

    Può succedere che comunicando una nostra opinione, benché neutrale e non giudicante secondo il nostro parere, il nostro interlocutore possa recepirla come un’offesa nei suoi confronti.

    Questo perché chi parla con noi interpreta e filtra secondo le proprie emozioni ed esperienze le nostre parole.

    Lo stesso vale per gli apprezzamenti e i complimenti, per fortuna! 😉

    Ognuno di noi valuta le parole degli altri secondo un proprio metro di giudizio.

    Disguidi e incomprensioni emergono a causa di un uso scorretto della comunicazione tra le persone.

    Ma vediamo come comunicazione non verbale e verbale influiscono in tal senso.

    La comunicazione non verbale e verbale a confronto

    Una interazione è influenzata dal ruolo tra i soggetti coinvolti e dal contesto.

    In un contesto lavorativo si comunica in un determinato modo, a scuola i ragazzi comunicano diversamente da come comunicano in casa con la propria famiglia

    Vediamo come anche il ruolo è importante: i bambini comunicano diversamente con la mamma e con la maestra, con i fratelli o con i compagni.

    Questo perché una comunicazione è formata da:

    • La parte cognitiva: viene elaborato il pensiero da trasmettere ad un interlocutore;
    • La parte emotiva e affettiva: il sentire dentro del soggetto comunicatore, il proprio stato d’animo, che inevitabilmente cambia a seconda di chi abbiamo di fronte;
    • Una parte comportamentale: l’agire verso l’altro, il comportamento, anche non verbale, che teniamo nei confronti del nostro interlocutore.

    Comunicazione non verbale e verbale qui si incrociano.

    Siamo state, di recente, presso una scuola superiore territoriale a parlare di criminologia.

    Nei giorni precedenti avevo preparato una presentazione da mostrare agli studenti, con testo, immagini e grafici.

    La mia comunicazione non verbale e verbale si è mossa, verso i miei interlocutori in diverse direzioni, al fine di trasmettere al meglio le mie informazioni e renderle più efficaci.

    Essa è stata:

    • Verbale, nella spiegazione dei concetti;
    • Non verbale, attraverso alcune immagini (della scena del crimine 😉 ) che hanno stimolato l’emotività dei ragazzi.

    La comunicazione per immagini stimola una reazione di comportamento, attraverso foto accattivanti, e rende il messaggio più efficace e memorizzabile.

    Comunicazione non verbale e intenzionalità

    Un’altra differenza fondamentale tra la comunicazione non verbale e verbale è l’intenzione di comunicare qualcosa.

    Infatti, la comunicazione può essere involontaria, inconscia, non intenzionale.

    Nello specifico, con il canale non verbale è possibile trasmettere significati ed emozioni ad un ricevente, senza verbalizzare alcun messaggio.

    Attraverso un sorriso si può comunicare complicità, con un sopracciglio elevato perplessità, disgusto arricciando il naso e così via.

    Ma vediamo insieme quali sono le parti di una comunicazione.

    comunicazione non verbale e verbale

    Solo il 7% della comunicazione è formata dalle parole dette; il 38% è formato dal modo di dire le cose.

    E la fetta più imponente, il 55%, riguarda il non verbale (puro): la posizione del corpo rispetto al nostro interlocutore, le espressioni facciali.

    Le parti di una comunicazione

    La comunicazione verbale avviene attraverso l’uso del linguaggio, sia in forma scritta che orale e dipende da precise regole sintattiche e grammaticali.

    La prosodia è la parte della linguistica che studia l’intonazione, la durata e l’accento nel linguaggio parlato.

    Si tratta dunque di una parte abbastanza rigida e fissa che caratterizza un soggetto.

    Il paraverbale riguarda la voce: ne comprende il tono ed il ritmo. Ma anche le pause e altre espressioni sonore come lo schiarirsi la voce.

    Questa rappresenta una parte variabile e che cambia a seconda del nostro stato d’animo e di ciò che vogliamo comunicare.

    La tristezza, ad esempio, comporta un tono di voce basso ed un ritmo piuttosto lento.

    A differenza, la gioia viene espressa attraverso un timbro di voce più elevato, un verbale più fluente ed un ritmo più sostenuto.

    La comunicazione non verbale (pura) riguarda le mimiche facciali, gli sguardi, i gesti, la distanza, la postura tra noi ed il nostro interlocutore.

    Tutti questi sono aspetti che rivelano moltissime informazioni sia sulla relazione tra due interlocutori, sui loro ruoli e sulle loro emozioni esperite in quel momento di incontro e confronto.

    La cinesica studia le posture.

    Come stiamo seduti su una sedia durante un colloquio di lavoro può influenzare il nostro selezionatore.

    La prossemica è la disciplina che studia lo spazio e le distanze tra due persone che stanno comunicando, che si trovano in una interazione, a livello di comunicazione non verbale e verbale.

    La distanza tra le persone racconta i rapporti ed i ruoli tra i comunicatori. Osservando possiamo capire se due persone mantengono una distanza di intimità o più formale.

    La comunicazione non verbale e verbale sono entrambe guidate dall’emozione. Vediamo in che senso.

    Il ruolo delle emozioni

    Le emozioni sono stati di attivazione che coinvolgono l’organismo e influenzano il modo in cui noi elaboriamo le informazioni guidandoci nell’attribuire i significati a tutto ciò che ci succede.

    Partendo da questa definizione, un po’ complessa, cerchiamo di capire insieme come si concretizza un’emozione.

    1. Prima fase: il soggetto, in risposta ad un stimolo visivo o uditivo, ha un’attivazione emotiva;
    2. Seconda fase: il segnale ricevuto viene dal soggetto classificato, ad esempio come pauroso, di gioia, disgustoso, di tristezza;
    3. Terza fase: si ha la risposta psicofisica allo stimolo.

    E’ lo studioso Paul Ekman che teorizza il metodo definito FACS (Facial Acting Coding System).

    comunicazione funzionale

     

    Questo metodo studia il movimento di singole unità muscolari del viso e riconduce ciascuno di essi ad un codice, il quale viene correlato ad una precisa emozione.

     

     

     

     

    Ad esempio: un muscolo frontale si contrae e permette il movimento di elevazione del sopracciglio, nella sua parte esterna, che codifichiamo con il numero 2.

    Questo movimento 2 è decodificato con l’emozione di dubbio.

    Ecco che quando eleviamo la parte esterna di un sopracciglio ci mostriamo dubbiosi.

    E così via.

    Comunicazione non verbale e verbale: la rabbia

    comunicazione non verbale e verbale

     

    Di che emozione si tratta?

    Siamo in grado di identificare questa espressione e dunque l’emozione che ne sta alla base?

    Si, attraverso il metodo Ekman di analisi del comportamento non verbale!

    Cosa succede durante l’attivazione fisiologica nella rabbia?

    Abbiamo visto che la terza fase di elaborazione di un’emozione è la risposta fisiologica ad uno stimolo.

    L’attivazione in risposta ad uno stimolo che fa provare rabbia, comporta:

    • Aumento della pressione sanguigna;
    • Tachicardia;
    • Ipersudorazione;
    • Tensione di vene sulla fronte e sul collo;
    • Arrossamento del viso.

    Tra gli indicatori paraverbali, ad esempio, troviamo aumento del tono di voce e eloquio più veloce.

    Tra gli indicatori non verbali troviamo:

    • Gesticolare più frequente;
    • Corpo in avanti, con petto in fuori e spalle indietro;
    • Mani ad artiglio, chiuse a pugno, dita puntate in alto o indice alzato;
    • Braccia verso l’alto.

    comunicazione non verbale e verbale

     

    Tutti i segnali non verbali di rabbia sono prodromici di un acting-out violento, ovvero il cosiddetto passaggio all’azione.

    Saperli riconoscere in una conversazione con un soggetto aggressivo è fondamentale per poter prevenire un attacco di violenza fisica.

    Abbiamo già parlato della gestione della rabbia nei bambini.

    Ma quali sono le funzioni della rabbia?

    Funzioni positive:

    • Aumenta l’energia, l’intensità alla base della determinazione;
    • Aumenta il senso di potere per l’autostima;
    • Riduce il sentirsi vulnerabile;
    • Attutisce l’insicurezza e la vulnerabilità percepita;
    • Stabilisce dominanza in una interazione.

    Funzioni negative:

    • Risposta alla frustrazione;
    • Necessità, bisogno che spinge alla rabbia;
    • Esaltazione di principi morali:
    • Un ostacolo da eliminare per uno scopo;
    • Un rifiuto, una ferita.

    Per gestire la rabbia è necessario il suo precoce riconoscimento attraverso i segnali che anticipano un’esplosione al fine di prendere misure preventive ed evitare la escalation emotiva.

  • La comunicazione funzionale nella prevenzione del conflitto

    comunicazione funzionale

    In questo articolo esuliamo brevemente dalle tematiche di tutela minorile per affrontare l’ampio tema della comunicazione funzionale.

    È vero, la maggior parte delle volte lavoriamo con famiglie in cui la comunicazione si è spezzata già prima del nostro arrivo.

    Infatti, lavorare sulle conseguenze di una rottura familiare fa parte delle nostre attività di sostegno alla funzione genitoriale e tutela dei figli.

    Ma non si parla mai abbastanza di prevenzione, questa sconosciuta!

    L’analisi dei comportamenti individuali, per effettuare una prevenzione del rischio, rappresenta una delle nostre attività prevalenti.

    È qui che si inserisce la comunicazione funzionale come elemento base di partenza per una buona prevenzione!

    Alla base di una comunicazione funzionale

    Quante volte, parlando con qualcuno, ci siamo sentiti dire: “io non lo comprendo proprio”; “parliamo due lingue diverse”; “ha alzato un muro tra di noi”.

    Si tratta di espressioni che indicano una impossibilità comunicativa tra due persone.

    Si, perché alla base di un buon rapporto c’è sempre una buona comunicazione.

    Una conversazione effettuata nel modo corretto, che possiamo definire comunicazione funzionale.

    Ma cos’è una comunicazione e qual è la sua funzione?

    Mettiamo un po’ di noi nella nostra comunicazione

    I soggetti coinvolti in una interazione sono un emittente, che trasmette un messaggio ed un ricevente, che ascolta e recepisce ciò che viene detto.

    Perché una comunicazione funzionale abbia luogo è necessario che il soggetto emittente del messaggio ed il soggetto ricevente si “sintonizzino” sulla medesima frequenza.

    Questo passaggio, però, è reso più complicato dalle singole caratteristiche psicologiche e comportamentali dei due soggetti. Mi spiego meglio:

    Guardate questo schema.

    comunicazione funzionale

    Le informazioni contenute in un messaggio trasmesso non sono quasi mai completamente neutrali.

    Chi comunica le informazioni, infatti, è caratterizzato da propri schemi di senso, personalissimi, dettati e formati dalle proprie esperienze.

    Le caratteristiche del messaggio emesso sono sempre influenzate dalle percezioni e dalle emozioni dell’emittente, dal contesto di riferimento e dal ruolo e la relazione tra i soggetti coinvolti.

    Allo stesso modo, chi riceve la comunicazione filtrerà, attraverso propri canali, le informazioni ricevute, operando una interpretazione del messaggio.

    Non è dunque tanto semplice riuscire in una perfetta comunicazione funzionale!

    Sì, perché soggetti con differenti valori, percezioni, conoscenze, esperienze potrebbero non sintonizzarsi sulla medesima frequenza, reinterpretando il messaggio ricevuto fino ad equivocarne il senso o distorcerne il significato.

    Questo può accadere in ogni comunicazione: al lavoro, in famiglia, tra amici.

    Chi riceve un’informazione, un messaggio, effettua una interpretazione dello stesso, secondo i propri vissuti, giudizi e pregiudizi, il proprio sistema di valori.

    Ecco che il rischio è proprio parlare due lingue diverse!

    Tipologie di comunicazione e differenti obiettivi

    E’ molto importante indagare lo scopo e l’obiettivo di una comunicazione, al fine di migliorarne l’efficacia e la comprensione.

    Ad esempio, se si ha l’intenzione di comunicare mere informazioni di dati, la trasmissione del messaggio risulterà più schematica e netta, che non lascia spazio all’interpretazione!

    Ma guardate la comunicazione pubblicitaria: i messaggi televisivi hanno l’obiettivo di persuadere il pubblico a casa a fare un acquisto e comprare un determinato prodotto.

    Una comunicazione persuasiva utilizza tecniche di conversazione tese a catturare l’interesse e la fiducia di chi ascolta, con l’obiettivo di convincere l’interlocutore.

    Ma il più rilevante, in questa sede, è per noi lo scambio di interazioni nel nucleo famigliare, tra soggetti che condividono la quotidianità ed in cui è fondamentale preservare le relazioni interpersonali.

    Certo, perché quando conosciamo bene il nostro interlocutore e tra noi intercorrono rapporti di amicizia o amore, è importante per noi essere ascoltati, compresi e sostenuti.

    La comunicazione funzionale in ambito familiare è alla base di una buona relazione basata sulla comprensione, sul rispetto reciproco e sulla fiducia.

    Sentirsi liberi di parlare apertamente dei propri problemi, chiedere un consiglio, discutere in merito ad una decisione da prendere sono elementi necessari per una relazione stabile e duratura.

    Quando ci sentiamo aperti e pronti a condividere le nostre emozioni e le nostre preoccupazioni con la nostra famiglia ci sentiamo protetti, più sicuri.

    Ma se il nostro bagaglio esperienziale e personologico influisce molto nella interpretazione (o mal-interpretazione) di un messaggio ricevuto, vediamo come anche lo stile comunicativo di ciascuno, se differente, può impedire una comunicazione funzionale.

    Gli stili di comunicazione

    Sono individuabili 3 principali famiglie in cui suddividere lo stile comunicativo:

    • Lo stile comunicativo passivo, caratterizza un soggetto che non prende o subisce decisioni, dà ragione al più forte, resta in disparte, non affronta i problemi, evita il conflitto.
    • Una comunicazione aggressiva, caratterizza un soggetto che domina l’altro, lo oscura, resta fermo nelle proprie idee, interrompe e svaluta gli altri, tende a scaricare le responsabilità.
    • Lo stile assertivo, caratterizza un soggetto che comunica senza ferire, ammette i propri errori, è un buon ascoltatore, accetta le critiche, è un buon mediatore e propone in modo costruttivo.

    Ciò che il nostro interlocutore comprende da noi non è sempre ciò che noi intendevamo dire!

    Come già visto, diverse variabili incidono sul senso percepito delle nostre parole.

    Valori personali, emozioni del momento, esperienze di chi ci ascolta filtrano il nostro messaggio, contribuendo alla sua interpretazione.

    Anche lo stile di comunicazione che ciascuno di noi ha acquisito ed imparato caratterizza i nostri modi di reagire, le nostre risposte impulsive, impedendo o agevolando una interazione con gli altri.

    Studiare gli stili di comunicazione di ciascun membro della famiglia è per noi fondamentale per analizzare ciò che può essere migliorato per favorire una buona interazione.

    Va da sé che lo stile comunicativo migliore è lo stile assertivo, che, tra i tanti pregi, ingloba anche quello di utilizzare strategie di comunicazione non verbale, in grado di avvicinare l’interlocutore a sé in modo empatico.

    La comunicazione non verbale

    Noi non comunichiamo solo a parole ma:

    • 38% con il modo di dire le cose;
    • 55% con le espressioni del volto e del corpo che usiamo mentre conversiamo.

    La CNV può essere paraverbale, che riguarda la voce: comprende il tono, volume e ritmo, le pause e altre espressioni sonore quali lo schiarirsi la voce.

    Oppure può essere non verbale pura, avviene senza l’uso delle parole, attraverso canali diversificati, quali mimiche facciali, sguardi, gesti e posture.

    Uno stile comunicativo assertivo si serve molto della CNV, la quale è strettamente correlata alle emozioni.

    L’emozione è l’ingrediente segreto di una comunicazione funzionale, poiché è uno stato di attivazione che coinvolge l’organismo ed influenza il modo in cui si conversa e si comprende un messaggio.

    Quando comunichiamo un messaggio positivo, il nostro tono di voce aumenta, siamo più allegri, gesticoliamo di più, abbiamo un bel sorriso stampato sulla faccia!

    Quando informiamo di una triste notizia, la nostra postura diviene calante, siamo più chiusi, le sopracciglia si abbassano, così come gli angoli della bocca ed il nostro tono di voce si fa più lento e basso.

    Rappresentare attraverso la nostra voce, i nostri gesti e la nostra mimica facciale emozioni coerenti con il messaggio che stiamo trasmettendo ci aiuta ad attivare nell’altro l’empatia e l’ascolto.

    Essere coerenti e congrui con il canale verbale, ciò che comunichiamo a voce, e quello non verbale, cioè il modo in cui lo diciamo, ci rende affidabili e buoni comunicatori.

    Rende il nostro messaggio molto più concreto, accettabile e comprensibile.

    Ci avvicina al sistema di valori, percezioni del nostro interlocutore, trasmettendo il messaggio così come vogliamo intenderlo, non lasciando spazio ad interpretazioni.

    Le regole di una comunicazione funzionale

    Quali sono, dunque, le regole base per una buona comunicazione?

    • Assumere uno stile comunicativo assertivo;
    • Comunicare in modo empatico ed emozionale;
    • Ascoltare attivamente l’altro;
    • Comunicare un messaggio in modo coerente sul piano verbale e non verbale;
    • Assumere un tono di voce chiaro, disteso e preciso;
    • Rimanere in una posizione di apertura e positività verso l’altro;
    • Non essere mai giudicante, fare attenzione alla scelta del lessico utilizzato.

    Alcuni consigli per migliorare i vostri rapporti con qualcuno con cui faticate a dialogare possono essere di non rimuginare, domandare sempre il significato inteso di una espressione che ci ha feriti, rimanere in silenzio di fronte a provocazioni sterili.

    Per consigli di lettura o approfondimenti, contattaci!

    ____________

    Fu lo studioso Paul Ekman ad organizzare le espressioni del viso in famiglie emozionali e a correlarle all’analisi degli episodi di menzogna.

    comunicazione funzionale

    Da: Ekman, P., Friesen, W.V. (2003). Unmasking the face: A guide to recognizing emotions from facial clues. Ishk.

    Chiedici informazioni se ti interessa approfondire questo argomento!

  • Maltrattamenti sui bambini. L’incuria e il caso di Tommaso

    maltrattamenti sui bambini

    Abbiamo già trattato in precedenza alcune forme di maltrattamenti sui bambini: la violenza assistita e psicologica, le forme di educazione autoritaria, quella iperprotettiva e l’ipercuria.

    In questo articolo parlerò di un’altra forma di maltrattamenti sui bambini, riferita alla mancanza di cura e premura da parte dei genitori.

    Affronteremo il concetto di malattia e disabilità in famiglia e come queste possono influenzare le capacità genitoriali.

    Negligenza e trascuratezza

    La trascuratezza si classifica come una forma di disattenzione e discuria nei confronti dei minori, rientrando dunque in una delle forme di incapacità genitoriale.

    Il nostro codice civile, all’articolo 147, chiarisce quali sono i doveri dei genitori nei confronti dei figli.

    Educazione, istruzione, mantenimento sono solo alcuni degli obblighi genitoriali.

    Cura, protezione, accudimento, vicinanza, sostegno, sono le parole chiave riferite ai doveri emotivi e di assistenza morale, non meno importanti.

    Quando tali comportamenti sono gravemente assenti, si verifica una carenza di responsabilità genitoriale.

    Negligenza e trascuratezza sono forme (dis)educative che possono comportare gravi conseguenze sullo sviluppo futuro del bambino.

    Perché si è negligenti

    Gli studi sulla prevenzione dei comportamenti devianti e negligenti dimostrano che ci sono alcune condizioni per le quali le condotte di trascuratezza possono verificarsi con maggiore probabilità.

    Nello specifico, è possibile analizzare il nucleo famigliare ed individuare alcuni fattori di rischio che sono alla base della messa in atto di maltrattamenti sui bambini.

    Fattori di rischio primari

    I fattori di rischio più influenti nel condizionare le condotte genitoriali sono:

    • Condizioni economiche precarie;
    • Posizione lavorativa incerta;
    • Condizioni abitative non agiate;
    • Difficoltà socio-relazionali dei genitori;
    • Famiglie disgregate e conflittuali;
    • Sfiducia verso le istituzioni;
    • Trascorsi e vissuti di violenza.

    Dietro le forme di negligenza educativa vi sono dunque fattori estremamente legati alla situazione della coppia genitoriale.

    Non solo.

    Anche la giovane età dei genitori ed un basso livello di istruzione influenzano i fattori di rischio.

    Fattori secondari

    È possibile individuare alcuni fattori secondari riferiti a situazioni di debolezza e fragilità del singolo genitore o della coppia, che sono causa della vulnerabilità educativa.

    Possiamo individuare:

    • Dipendenze da gioco, sostanze, alcol;
    • Conflitti di genere nella coppia;
    • Scarsi livelli di empatia;
    • Condizione psicologica dei genitori;
    • Eventuale situazione di malattia o disabilità del minore.

    Questo aspetto della malattia verrà trattato a breve in modo approfondito.

    La patologia delle cure

    La patologia delle cure rientra nelle forme di maltrattamenti sui bambini ed è intesa come una prassi educativa e di genitorialità errata.

    Nello specifico, rientrano in questa definizione l’ipercuria, tipica del modello educativo di iperprotezione, e l’incuria.

    Mentre l’ipercuria è già stata trattata in precedenza, vediamo ora, insieme, che cosa intendiamo con il termine incuria.

    Le forme dell’incuria

    Quando si parla di incuria si intende la mancanza di cure, di premure e di attenzioni da parte dei genitori verso i figli.

    Rientrando nelle forme di trascuratezza e negligenza, l’incuria può essere:

    • Fisica: i minori presentano carenze alimentari, insufficienza di materiale scolastico, vestiti sporchi, larghi e non adatti, problemi sanitari;
    • Emotiva: il genitore mantiene un atteggiamento di indisponibilità, disattenzione, apatia, mancato ascolto e comunicazione con il figlio;
    • Educativa: i figli non sono sostenuti, seguiti, affiancati, presentano carenze scolastiche legate a compiti non fatti, cambio frequente delle scuole frequentate;
    • Medico-sanitaria: il rifiuto di sottoporre il figlio a cure mediche, terapie, esami, controlli e visite, da parte del genitore.

    Ecco che, l’incuria medico-sanitaria può essere correlata ad uno dei fattori di rischio che abbiamo visto poco sopra.

    La presenza di una malattia o disabilità nel bambino può essere un elemento di rischio verso una futura incuria medico-sanitaria.

    Ma perché la malattia del minore diventa concausa verso forme educative negligenti?

    La malattia e la disabilità in famiglia

    La malattia muta inevitabilmente le dinamiche famigliari e le aspettative su un futuro perfetto e ideale.

    L’annuncio di una malattia, che sia alla nascita o diagnosticata durante l’infanzia, provoca una modificazione permanente degli assetti famigliari.

    Spesso e volentieri, un nucleo unito, alla notizia della malattia, presenta un rischio elevato di disgregazione.

    Restare tutti vicini, sostenersi, comprendere la situazione e le esigenze mutate della famiglia, non è sempre facile.

    Accettare la condizione di malattia presuppone senso di responsabilità, altruismo, una forte empatia e coraggio.

    La disabilità di un figlio condiziona l’essere genitore.

    Il bambino diventa necessariamente dipendente dalle figure di accudimento, la cura e la protezione nei suoi confronti richiedono più energie ed una sviluppata maturità e capacità genitoriale.

    Le reazioni al trauma della malattia

    Diverse sono le reazioni dell’adulto all’annuncio di malattia o disabilità del figlio. Possono essere:

    • Accettazione e comprensione;
    • Negazione di ciò che sta accadendo e incredulità;
    • Ipercuria e iperprotezione;
    • Distanziamento e incuria.

    Un genitore che non dispone di risorse per affrontare la situazione, materiali, socio-assistenziali e di sostegno psicologico, è più esposto al rischio di mettere in essere condotte di incuria.

    Ma quindi, perché correlare la malattia del minore a forme di maltrattamenti sui bambini?

    Malattia e incuria medico-sanitaria

    Come abbiamo detto, una disabilità può essere fattore di rischio per una educazione genitoriale negligente, che rientra nella forma dell’incuria.

    Questo è vero nei nuclei famigliari a più alto rischio di condotte negligenti, secondo le definizioni sopra riportate.

    È con queste famiglie più sole, precarie, spesso disgregate e disagiate che è necessario lavorare per prevenire danni futuri al minore.

    Conoscere la situazione e migliorarla, attraverso un piano progettuale di recupero, sostegno ed aiuto è molto importante.

    Emozioni di rabbia, senso di colpa, frustrazione e sconforto, impotenza e incredulità possono colpire il genitore, abbassando di fatto la propria capacità educativa.

    Il caso di Tommaso

    Tommaso è un ragazzo di 15 anni che vive con la madre in una piccola cittadina di provincia.

    Da quando i suoi genitori si sono separati, vive la sua quotidianità il più possibile fuori casa.

    Tommaso frequenta un’associazione carnevalesca in cui si preparano carri allegorici tutto l’anno.

    Frequenta un gruppo di ragazzi coetanei ed adulti, lavora con la cartapesta e tutti i giorni si presenta ai capannoni, per portare avanti il lavoro.

    A scuola gli è stato assegnato un educatore di sostegno, sua madre dice che non è poi così necessario perché, in fondo, sa badare a sé stesso.

    Tommaso è malato di diabete di tipo II, una patologia piuttosto grave ed invalidante, che necessita di cure ed attenzioni.

    La mamma, per merenda, spesso gli prepara merendine al cioccolato o pastine zuccherate, perché gli piacciono molto.

    Quando, nel pomeriggio, si ferma a lavorare ai carri, Tommaso ama bere coca cola e mangiare tante patatine, dimenticando a casa i dispositivi medici.

    Tommaso spesso si sente solo, qualcuno lo prende in giro per la sua forma fisica e perché non si cambia mai i vestiti, che spesso sono sporchi.

    Gli insegnanti, chiedendo sostegno ai Servizi territoriali, vogliono che chi di competenza si esprima sulla capacità e responsabilità dei genitori di Tommaso.

    Per non affidare Tommaso ad una Comunità, che peggiorerebbe la sua situazione già precaria, viene proposto un affidamento presso la nonna materna.

    Il Tribunale dispone per il minore l’intervento di uno psicologo per due volte a settimana, per aiutare Tommaso a comprendere e gestire la propria situazione di salute.

    La storia di Tommaso è la storia di tanti ragazzi che per motivi di malattia o disabilità hanno bisogno di essere assistiti da adulti capaci e responsabili.

    Per incoraggiare e sostenere la genitorialità, si consiglia l’intervento di un pedagogista esperto, inserito in un team multidisciplinare.

    Per qualsiasi informazione sul tema del maltrattamenti sui bambini, non esitare a contattarci! 😉

    Quali tutele

    L’articolo 403 c.c. sancisce una conseguenza dei maltrattamenti sui bambini, ad opera di chi deve averne cura.

    L’articolo è stato pensato per proteggere il minore abbandonato o allevato in luoghi pericolosi, sporchi, per motivi di negligenza o ignoranza.

    La prassi prevede l’intervento dei Servizi che, compresa la situazione, effettuano una segnalazione all’autorità pubblica.

    Le autorità, in seguito, intervengono al fine di collocare il minore presso un luogo sicuro, finché si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione.

    Non solo stare bene è un diritto del bambino ma è altresì un dovere di tutti noi operatori, quello di fare emergere situazioni di incuria e porvi rimedio.

  • Violenza di gruppo nei ragazzi e bullismo. Il caso di Lorenzo

    violenza di gruppo e bullismo

    In questo articolo proverò a raccontarvi come si realizza la violenza di gruppo, come e per quali motivi può nascere.

    In un precedente intervento, abbiamo parlato di bullismo: quali sono le condotte in cui si concretizza e come difendersi da esso.

    La violenza di gruppo, infatti, si attua principalmente attraverso i fenomeni di bullismo e mobbing, ovvero la condotta vessatoria attuata sul posto di lavoro.

    Come detto, i due fenomeni si accomunano per le seguenti caratteristiche:

    • La ripetitività nel tempo;
    • La costanza delle condotte vessatorie;
    • Le importanti conseguenze sulla vittima;
    • L’asimmetria nel rapporto tra i soggetti coinvolti;
    • La predominanza di una parte sull’altra.

    Ma vediamo insieme, più nello specifico, come si generano le condotte violente nei gruppi.

    La genesi della violenza di gruppo

    Diversi studi e ricerche di criminologia si sono concentrati ad indagare la genesi dei comportamenti violenti nei gruppi.

    Tutto parte sempre da un soggetto predominante sugli altri, che guida il gruppo.

    Il soggetto aggressivo

    Ancora una volta, tra le principali cause della nascita della violenza di gruppo, è l’educazione a farla da padrona.

    Si, perché il modo in cui veniamo educati è una delle prime variabili che condizionano il nostro carattere ed i nostri comportamenti.

    Le statistiche dimostrano che un soggetto aggressivo presenta sempre trascorsi particolari legati all’educazione impartita.

    Nello specifico:

    • Una educazione autoritaria. Questo modello insegna al figlio a sopraffare gli altri, comandarli, sfruttarli per proprio tornaconto personale: per sopravvivere è necessario sopraffare gli altri.
    • Un modello educativo di trascuratezza: vissuti emotivi di assenza ed apatia rendono il ragazzo vulnerabile, il quale avrà bisogno di un sostegno esterno alla famiglia.

    Il ragazzo, così, cercherà nel gruppo di pari un appoggio, anche se questo significa fare del male agli altri.

    Aggregarsi ad un gruppo di amici devianti è tra le prime posizioni dei fattori di rischio dei comportamenti violenti.

    • Una educazione violenta: i figli che subiscono questo tipo di educazione concepiscono questo come unico modello di relazione possibile con gli altri.

    Una figura di riferimento che sostiene l’aggressività e la prevaricazione, che sostiene condotte prepotenti, è un grave rischio per la messa in atto di condotte aggressive nel ragazzo.

    La responsabilità in un gruppo

    Vediamo ora insieme cosa succede alla responsabilità in un gruppo violento.

     Il capro espiatorio

    Come già anticipato quando parlavamo di bullismo, nella violenza di gruppo si individua un soggetto che funge da capro espiatorio.

    Si tratta di un soggetto, con particolari caratteristiche fisiche o psicologiche, che viene usato per sfogare le pressioni presenti in un gruppo.

    Il gruppo può così mantenere il proprio equilibrio, sfogando all’esterno le problematiche.

    Il soggetto-vittima individuato è di solito scelto tra i ragazzi più isolati, che non si conformano al gruppo ed alle sue regole.

    Le teorie vittimologiche designano, infatti, alcuni soggetti che presentano un maggior rischio di subire aggressioni.

    A scuola, sono i bambini soli, con passioni, attitudini o particolarità che li diversificano dagli altri.

    Sul posto di lavoro, sono i dipendenti più chiusi, con tratti caratteriali particolari o abitudini bizzarre.

    Il disimpegno morale

    Alcuni studiosi autorevoli individuano dei meccanismi che vengono usati per giustificare le condotte violente, soprattutto nella violenza di gruppo. Vediamoli:

    • Etichettamento della vittima“è solo un cretino”, la vittima viene giudicata e dunque resa meritevole del comportamento subito;
    • Deumanizzare la vittima, non facendola sentire meritevole né degna: “non vale niente, se l’è meritato”;
    • Attribuzione della colpa alla vittima“ha cominciato lui, se l’è cercata”;
    • Distorsione delle conseguenze“non gli ho mica rotto la testa”. La condotta violenta viene minimizzata;
    • Giustificazione morale della condotta“ha fatto bene a picchiarlo, tutti quelli come lui vanno tolti di mezzo”;
    • Dislocamento da sé della responsabilità, tipico della violenza nei gruppi: “non c’ero solo io”;
    • Diffusione della responsabilità“eravamo tutti d’accordo”;
    • Confronto vantaggioso“non l’ho mica ucciso, l’ho solo spinto”.

    I meccanismi elencati servono all’aggressore per diminuire la propria responsabilità per il fatto compiuto.

    La propria coscienza viene neutralizzata, adottando strategie che deformano il senso di causa-effetto delle azioni violente.

    Con l’adozione di tali strategie di autogiustificazione, la violazione di valori e norme è motivata e non più considerata sbagliata.

    Spesso e volentieri il prevaricatore non si rende nemmeno conto di mettere in atto queste condotte!

    Per approfondire la bibliografia di questi studi e per curiosità, non esitare a contattarci!

    Il caso di Lorenzo

    Lorenzo è iscritto alla classe terza di un Istituto Superiore di elettronica. È figlio unico, i genitori lo dipingono come un ragazzo a cui piace stare solo.

    Spesso torna a casa da scuola con pagine dei quaderni scarabocchiate, con parolacce scritte e pagine del diario strappate.

    La madre di Lorenzo ci riporta che il ragazzo non parla della propria giornata scolastica, evita l’argomento.

    La classe di Lorenzo si sta preparando per una gita di alcuni giorni, ma lui non intende andare.

    Capita che abbia la nausea quando rientra da scuola e che si chiuda per ore in camera.

    Ultimamente, il suo rendimento scolastico non è dei migliori, Lorenzo non ha voglia di studiare ed è spesso distratto.

    La mamma ci riferisce che il ragazzo ha un carattere piuttosto chiuso, ma che ha preso una nota per avere gridato contro un compagno.

    L’insegnante di italiano riferisce ai genitori di Lorenzo che un gruppo di quattro ragazzi, durante la ricreazione, isolano, umiliano e offendono il ragazzo, ormai da settimane.

    Richiamati i ragazzi, la famiglia è più tranquilla ma Lorenzo torna a casa sempre troppo stanco e arrabbiato.

    Dopo cinque mesi Lorenzo lascia la scuola, in accordo con i genitori e si iscrive in altro Istituto scolastico.

    Le pene però non sono finite: ha timore ad uscire di casa, soffre di insonnia, ha paura a frequentare i luoghi di ritrovo del proprio paese.

    Per aiutarlo, la madre decide di recarsi presso le Autorità per riferire delle condotte abusanti dei quattro ragazzi, sospettando il perdurare di tali condotte sul figlio.

    La Cassazione, con Sentenza, riconosce, negli atteggiamenti del gruppo di ragazzi, la violazione dell’art. 612 bis c.p.

    La Corte individua gli atti di bullismo come atti persecutori e stalking, risolvendo una questione di giustizia molto rilevante.

    Il ruolo degli adulti

    Abbiamo già visto come e in quali casi è possibile fare causa al genitore che viola gli obblighi ed i doveri sanciti dal codice civile.

    Anche nel caso della violenza di gruppo tra adolescenti è possibile configurare una responsabilità in capo agli adulti.

    Secondo l’art. 2048 c.c. il tutore, insegnante o genitore che si prende cura del minore, risponde per i fatti illeciti da questo compiuti.

    Dunque, non solo il genitore con il dovere di vigilanza ed educazione può essere responsabile, ma anche l’insegnante che non ha impedito il fatto.

    L’adulto deve dimostrare di avere messo in atto tutte le possibili misure preventive di custodia e sorveglianza, anche al di fuori degli orari e dei luoghi di lezione.

    E’ il Ministero dell’Istruzione a risponderne, rifacendosi poi, economicamente, sul dipendente statale presente nei momenti degli atti violenti.

  • Terrore psicologico in famiglia. Il caso di Margherita

    terrore psicologico in famiglia

    In diversi precedenti articoli abbiamo visto alcune prassi educative errate, messe in atto da genitori verso i figli.

    Ma il genitore dunque, non è libero di scegliere come meglio educare i propri figli?” è ciò che spesso i genitori ci chiedono.

    La risposta è sì e no. Spieghiamoci.

    I genitori, involontariamente, lasciano parti di sé nei propri figli; infatti, tutti noi siamo fatti di piccoli pezzi. Pezzi che ci rappresentano, come un puzzle, spesso anche ambivalenti.

    Come anticipato nell’articolo sulla “culla dell’aggressività”, è nel periodo di età tra 0-3 anni che si formano i nostri schemi fissi di personalità.

    I genitori trasmettono ai propri bambini la loro esperienza di vita, i propri punti di vista su ciò che accade nella quotidianità e nel mondo, i loro valori.

    I figli imparano e fanno propri, però, anche i lati negativi: i tratti aggressivi, i pregiudizi, l’aggressività.

    Questo perché solo una parte di eredità deriva dalla genetica!

    Prendiamo dai nostri genitori il colore degli occhi, dei capelli, la forma del naso, l’altezza.

    Ma attraverso l’apprendimento, già nella prima fase di sviluppo del bambino, attraverso il condizionamento, l’imitazione, trasmettiamo ai nostri figli i modi di fare, pensare, le abitudini.

    Quando date un consiglio su come affrontare una situazione, quando piangete o ridete per un evento, il modo di verbalizzare o mostrare le emozioni è parte di un apprendimento inconscio.

    Dunque SI, il genitore educa liberamente il figlio, a partire dalle proprie conoscenze, mentre “è se stesso”.

    Ma è bene essere responsabili e coscienti del fatto che un figlio non sempre riuscirà a separarsi dalle situazioni vissute in famiglia, soprattutto se negative.

    Ciò di cui parlerò in questo articolo è il terrore psicologico in famiglia, in cui rientra la violenza domestica, assistita, ma anche un’educazione rigida, autoritaria, trascurante, ansiosa ed iperpresente.

    Educazioni sbagliate vengono vissute con dolore, internalizzate e causeranno traumi e conseguenze difficili da rimuovere, nell’età adulta.

    L’abuso emotivo

    Stiamo qui analizzando le forme di terrore psicologico in famiglia; tra cui vorrei includere l’abuso emotivo e l’abuso di mezzi di correzione, proprio di uno stile genitoriale autoritario.

    Vediamo per primo l’abuso emotivo.

    Definizione

    Con abuso emotivo intendiamo una forma di violenza psicologica che consiste nel fornire al proprio figlio risposte emozionali inadeguate.

    Nell’articolo sullo sviluppo emotivo del bambino, abbiamo sottolineato l’importanza di reagire in modo adeguato ad uno stimolo lanciato dal figlio.

    Facciamo un esempio.

    Se nel periodo di sviluppo 0-3 anni un bambino, non ancora in grado di verbalizzare i propri disagi, piange, sarà necessario mettere in atto una condotta di protezione ed accudimento.

    Se un bambino di 2 anni cade dalla sedia, esprimere un’emozione di paura, relativa al rischio che il proprio figlio si faccia male, è una reazione adeguata, se non esasperata.

    Ma se a fronte di questo episodio, la mamma lo sgrida, si arrabbia e lo mette in punizione, ciò che viene trasmesso al figlio è che in caso di pericolo è meglio non affidarsi ai genitori!

    La risposta emotiva della figura di accudimento viene assimilata dal figlio e contribuisce alla sua alfabetizzazione emotiva, in un momento di massimo sviluppo.

    È importante che un bambino impari ad associare una determinata emozione al giusto stimolo ricevuto, per esempio all’interno di una interazione.

    Nelle relazioni future, il bambino imparerà ad ascoltare, dialogare e provare empatia, sentendosi triste, arrabbiato o felice, adeguatamente alle situazioni che fronteggerà.

    Il terrore psicologico in famiglia è spesso una delle principali cause dietro a diversi disagi psicologici adolescenziali.

    Attenzione alle vostre reazioni, dunque: esagerazioni, attacchi di grida e panico, momenti di apatia, rappresentano alcune delle peggiori risposte emotive ai comportamenti dei bambini.

    Reazioni attese

    Nel periodo di età compresa tra 0-3 anni il bambino comincia ad apprendere ciò che vede, a dare un senso alle emozioni, a seconda del suo sviluppo emozionale.

    I ragazzi già un po’ più grandi e sviluppati, invece, iniziano a dare un nome ai sentimenti ed agli stati d’animo e ad esprimerli in modo organizzato.

    Già dai 4 anni di età i bambini hanno aspettative emotive nei confronti dei genitori: mi spiego.

    A fronte di un successo scolastico o di una vittoria sportiva, il bambino si aspetta che i genitori mostrino gioia, rinforzo, congratulazioni.

    Quando si sente triste si aspetta apertura, conforto, vicinanza, comprensione.

    E così via.

    Una reazione genitoriale inappropriata alle aspettative ed alle emozioni del bambino causa sentimenti di paura, angoscia ed umiliazione.

    Le principali forme di terrore psicologico in famiglia, dunque, possono essere così sintetizzate:

    • Trascuratezza emotiva;
    • Forme di PAS;
    • Violenza assistita e domestica;
    • Interazioni inappropriate;
    • Educazione iperprotettiva o autoritaria.

    L’abuso di mezzi di correzione

    Rientra nelle forme di terrore psicologico in famiglia l’abuso di mezzi di correzione e di punizioni corporali.

    Nell’articolo precedente abbiamo visto la fattispecie di abbandono di minori, quale reato punito dal codice penale, con l’esempio più classico dell’abbandono di minore in auto.

    Vediamo qui un’ulteriore fattispecie codificata, ovvero l’articolo 571 c.p.

    Tale articolo punisce la persona che abusa di mezzi di correzione su un soggetto sottoposto alla sua autorità o a lui affidata, per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia.

    Il caso di Margherita

    Margherita è una bambina a cui piace imparare, ma non andare a scuola. Le piace leggere e fare lunghe camminate nel parco.

    È una bambina intelligente, sveglia, ma che non resta volentieri insieme ai propri compagni.

    Spesso resta in disparte, nessuno la sceglie nei giochi di squadra, non ha un’amica del cuore.

    Ha il timore ad esprimere il proprio pensiero, ogni tanto piange prima di dormire.

    Margherita, in casa, si sente spesso sola. Vuole bene alla mamma, con cui però è sempre arrabbiata, anche se non sa spiegarsi il perché.

    Quando ha un problema, scrive sul suo diario segreto. Chiede protezione, vicinanza, calore, a pagine che non le risponderanno.

    Il papà di Margherita torna a casa tardi la sera, è un uomo intransigente e forte, che chiede alla mamma puntualità nel servire la cena.

    Mamma e papà non parlano molto, non vanno d’accordo, ogni tanto litigano ad alta voce e Margherita alza il volume della musica in cameretta.

    Molto spesso, papà chiude Margherita a chiave in camera, mandandola a letto senza cena.

    Abitualmente la punisce con schiaffi e la costringe a pulire per ore i suoi abiti da lavoro, se rientra tardi o risponde male.

    Con una Sentenza, la Cassazione incolpa il papà d Margherita di abuso di mezzi di correzione.

    Lo inquadra come un padre vessatorio, che non riesce a comunicare, con atteggiamenti aggressivi e metodi severi di disciplina.

    I suoi metodi educativi non sono condivisibili né accettabili, neanche per migliorare le relazioni ed il rendimento scolastico della figlia.

    Margherita, sentendosi rifiutata dal padre e non aiutata dalla madre, prova oggi timore e soggezione verso gli uomini e, ormai adolescente, ha scelto di intraprendere un percorso di sostegno psicologico.

    E’ importante saper riconoscere i propri metodi educativi e correggerli, in caso di errore.

    Come abbiamo visto, le forme di trascuratezza, abbandono, iperprotezione e punizioni autoritarie, rientrano in forme educative sicuramente inadeguate.

    Se vuoi discutere con noi di una situazione che ti incuriosisce, o vuoi un parere educativo, contattataci.

  • Sostegno e formazione contro la violenza domestica. Cosa fare

    violenza domestica cosa fare

    Abbiamo già parlato della violenza domestica e di tutte le forme e fasi in cui può concretizzarsi, soprattutto nei casi in cui a subire è una donna.

    Parlando di violenza assistita, abbiamo poi ulteriormente spiegato la violenza domestica, cosa fare per difendersi e quali sono le conseguenze sui figli.

    Tante forme di violenza che possono riguardare chiunque all’interno del nucleo famigliare: padri, madri, figli, nonni.

    Ma le statistiche che i ricercatori ci presentano, evidenziano un dato sconcertante.

    Sono le donne e i bambini a rappresentare il numero maggiore di vittime, costituendo la violenza domestica una vera e propria violenza di genere.

    Bambini e donne sono infatti tutelati da diverse normative, nazionali ed internazionali, quali soggetti deboli, che necessitano di maggiore protezione.

    Vediamo subito di che cosa sto parlando.

    La violenza di genere

    Ricorrono di frequente immagini di donne dei Paesi orientali che non possono frequentare la scuola, né parlare ad estranei, né guidare, né mostrarsi in pubblico.

    Per ragioni legate ad una religione molto rigida, vi sono Paesi che mutilano le donne, sformano loro i piedi, le vendono per contrarre matrimonio, le obbligano a prostituirsi.

    Ebbene, anche in Occidente, proprio qui vicino a noi, nella Nazione affianco alla nostra o in casa dei nostri vicini, si verificano quotidianamente violenze sulle donne.

    Ma, a differenza delle culture orientali, le ragioni delle nostre violenze si basano sui pregiudizi, sui valori educativi sbagliati, esperienze di violenza assistita e disturbi psicologici.

    Se immaginiamo di subire atti di violenza domestica, cosa fare per difenderci ci salta subito in mente: denunciare, reagire, fare qualcosa.

    Ma non è così facile! Probabilmente non riusciremmo a chiedere aiuto. Per diversi motivi.

    Studi dimostrano che dietro a uomini maltrattanti, probabilmente con tratti psicologici narcisistici, ci sono donne che, talvolta, mostrano forme di dipendenza affettiva.

    Un po’ di storia

    Ricorreva domenica 25 novembre, la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

    Tale data venne stabilita nel 1999, durante l’Assemblea Generale dell’ONU, in riferimento ai fatti relativi all’”omicidio delle farfalle”, avvenuto nel 1960.

    Tale episodio fa riferimento all’uccisione di tre donne che, durante il regime dittatoriale in Repubblica Dominicana, si recarono a trovare i loro mariti in prigione, poiché ribelli.

    Le donne vennero avvicinate dalle Autorità, portate in un vicino campo di canna da zucchero, picchiate a morte e strangolate.

    È nel 1980, durante il primo incontro internazionale femminista in Colombia, che tale evento viene sancito come ricorrenza.

    Definizioni e statistiche

    La violenza di genere è definita come una violenza perpetrata dall’uomo o dalla donna sull’altro sesso, che per ragioni culturali, valoriali ed educativi ha pregiudizi sulla vittima e su di essa si impone.

    Relativamente alle violenze sulle donne, possiamo effettuare questa classificazione:

    • Violenza sessuale, anche tentata;
    • Umiliazioni e minacce;
    • Percosse, lesioni;
    • Stalking;
    • Molestie sul posto di lavoro;
    • Controllo economico.

    Secondo una ricerca ISTAT, si evidenzia che 1 donna su 3 subisce violenza durante l’arco della propria vita; già dai 15 anni di età.

    Il 62,7% delle donne intervistate a campione ha subito stupri da parte del partner o ex partner, che di frequente effettuano stalking.

    Il 38% degli omicidi di donne si concretizza per mano di un uomo, di solito il marito o il compagno.

    Vorrei soffermarmi, di seguito, su tre specifici casi: lo stalking, la violenza economica ed il mobbing lavorativo.

    Il controllo economico

    Una delle forme di violenza domestica più subdole e assoggettanti è quella del controllo economico, che si realizza ai danni di un uomo o più spesso di una donna, per mano del partner convivente.

    E’ chiaro che a differenza della violenza fisica, la violenza economica rientra in una forma di pressione psicologica, a causa di cui aumenta la dipendenza della vittima dal proprio abusante.

    E’ una forma pericolosa, nascosta, che provoca nella vittima la totale perdita di controllo e di autostima.

    La violenza economica si sostanzia in:

    • Controllo del denaro contante e delle transazioni bancarie;
    • Controllo delle proprietà;
    • Divieto di intraprendere un lavoro;
    • Controllo della gestione familiare.

    Ed ha come obiettivo l’assoggettare l’altro, renderlo completamente dipendente ed annullarlo.

    Lo stalking

    Eccoci ad affrontare questa fattispecie relativamente nuova nel nostro ordinamento, di cui si è tanto discusso: lo stalking.

    Infatti, viene introdotto nel 2009 con una Legge che prevede, per gli atti persecutori, una pena dai 6 mesi ai 4 anni di detenzione, inserendo lo stalking tra i reati, all’interno del codice penale.

    L’art. 612-bis spiega che le persecuzioni, per essere tali, devono:

    • Essere ripetute nel tempo;
    • Condizionare la vittima nella propria quotidianità;
    • Cambiare le abitudini della vittima;
    • Causare ansia, timore e terrore nella vittima;
    • Impaurire la vittima, che teme per sé, per i propri cari.

    Se vi chiedete in caso di violenza domestica cosa fare, ricordate innanzitutto che parlare con qualcuno di ciò che sta succedendo è un primo passo importantissimo!

    Mentre il controllo economico e lo stalking rientrano maggiormente in casi di violenza familiare, vi sono altresì casi di violenza che si concretizza sul posto di lavoro.

    Vediamo insieme.

    Violenze sul posto di lavoro: il mobbing

    Ogni tanto vi sarà capitato di sentire parlare di mobbing: con questo fenomeno si vuole intendere un atteggiamento vessatorio e di violenza, perpetrato ai danni di un lavoratore.

    Infatti, la giurisprudenza ha sottolineato che le violenze domestiche integrano anche quelle che si verificano sui posti di lavoro.

    Così come riportato in una ricerca ISTAT, le donne ammettono di avere subito il maggior numero di condotte vessatorie sul posto di lavoro, nell’arco della vita tra i 45 e i 54 anni.

    Seguono poi le donne che ammettono di avere subito abusi e violenze soprattutto negli ultimi 3 anni; esse rientrano nella fascia di età tra i 35 e i 44 anni.

    Questa recente ricerca ISTAT riporta le principali forme di mobbing, denunciate dalle donne:

    • Richiesta di disponibilità sessuale;
    • Richiesta di prestazioni sessuali;
    • Avances per avanzo di carriera.

    Il mobbing non è regolamentato, nel nostro ordinamento, come fattispecie di reato.

    Ci sono però diversi metodi di contrasto e di aiuto che si possono mettere in atto per fare emergere tali violenze e combatterle.

    Se vuoi discutere con noi una situazione di mobbing, non esitare a scriverci, siamo a disposizione per fornirti le indicazioni di cui hai bisogno!

    Che cosa possiamo fare

    Le denunce

    Il numero complessivo di denunce alle Forze dell’Ordine, relative a violenze ed abusi subiti dalle donne, risulta aumentato negli ultimi anni, soprattutto grazie alla grande sensibilizzazione che si sta attuando.

    Ma, mentre il numero di denunce sale, aumenta anche la certezza che sono gli uomini i perpetratori: nel 77% dei casi, infatti, sono uomini ad essere denunciati.

    In diminuzione risultano, secondo i dati ISTAT, le denunce per percosse, in aumento, invece, quelle per stalking.

    Sempre maggiori sono gli ammonimenti e gli allontanamenti effettuati su padri di famiglia e uomini sposati o conviventi, da parte delle Autorità.

    Ancora molto alto, però, risulta essere il numero oscuro relativo agli abusi sulle donne. Si tratta di ricatti vissuti in silenzio tra le mura domestiche.

    ISTAT ci mostra che l’80,9% delle donne non denuncia i fatti, nello specifico per tre motivazioni principali:

    • Considerano scarsa la gravità delle violenze o normali e giustificate;
    • Non ripongono fiducia nelle Forze dell’Ordine;
    • Si ritengono impossibilitate ad agire e senza via di fuga.

    Lavorare con gli uomini

    Nel mese di Novembre 2018 ISTAT ha effettuato una ricerca sui centri per uomini maltrattanti, presenti sul nostro territorio.

    Da tale ricerca emerge che sono in aumento i luoghi in cui gli autori di reato vengono accolti ed ascoltati, al fine di aiutarli a riconoscere la loro problematica.

    Nello specifico, tali centri hanno lo scopo di:

    • Lavorare con uomini maltrattanti sulla gestione della rabbia;
    • Diminuire il rischio o la recidiva di comportamenti violenti;
    • Lavorare sulla consapevolezza, responsabilizzazione e sensibilizzazione del fenomeno;
    • Dare consulto psicologico e psicoterapeutico, oltre a consulenza legale;
    • Fornire aiuto nel contrasto alle dipendenze.

    Che cosa consiglierei ad una donna vittima di violenza?

    Innanzitutto, di creare una rete di sostegno attorno a sé, parlare con i propri cari, chiedere aiuto, ma soprattutto fronteggiare la situazione con le proprie risorse, credere in sé e nel proprio valore.

    Cosa possiamo fare noi, per una donna vittima di violenza o per un uomo abusante?

    Noi siamo a disposizione per ascoltare, consigliare e supportare le situazioni di violenza, soprattutto in presenza di bambini ed adolescenti.

    A differenza di un percorso di trattamento psicologico, ci proponiamo di individuare ed attivare le risorse presenti sul territorio ed i servizi di ascolto e consulenza legale.

    Operiamo progetti individuali di prevenzione e sostegno alla responsabilità genitoriale in presenza di figli, soprattutto nei casi di violenza assistita o in presenza di separazioni conflittuali.

    Affianchiamo i genitori in difficoltà, alla ricerca della migliore soluzione per il bambino, elaborando relazioni con valenza legale.

  • Violenza assistita intrafamiliare e conseguenze sui figli

    violenza assistita intrafamiliare

    La violenza assistita intrafamiliare rientra nella più conosciuta violenza domestica, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo.

    Così come già definita, si tratta di una forma di maltrattamento attuato tra le mura domestiche, all’interno del nucleo famigliare.

    Si configura in tutte le azioni ed i comportamenti vessatori in cui un membro della famiglia vuole predominare sugli altri ed imporre le proprie idee e decisioni.

    Tali atteggiamenti vengono perpetrati tramite minacce, violenze fisiche, intimidazioni e l’isolamento di uno o più membri della famiglia.

    Quando gli atti di violenza domestica si svolgono in presenza di minori, si parla di “violenza assistita”, una forma di abuso grave, pericolosa e dannosa per lo sviluppo del bambino.

    Forme e definizioni

    La violenza assistita intrafamiliare riguarda le figure di riferimento del bambino, nello specifico può riguardare:

    • Atti di violenza, abusi e maltrattamenti tra i genitori;
    • Violenze psicologiche e fisiche sui fratelli;
    • Soprusi e maltrattamenti sui nonni, da parte dei genitori.

    La recente giurisprudenza ha affermato che anche liti tra genitori, in cui la donna è in gravidanza, rientrano nella violenza assistita, poiché diversi studi hanno riscontrato una sofferenza nel feto, durante i conflitti tra genitori.

    La violenza assistita intrafamiliare può essere:

    • Diretta, quando i figli assistono direttamente alle forme di abuso;
    • Indiretta, quando i minori vengono a conoscenza di tali situazioni senza assistervi, percependone gli effetti sul proprio equilibrio psico-fisico.

    Il minore può assistere a differenti forme di violenza, come:

    • Fisica, con botte, spinte, schiaffi, diretti da un genitore verso l’altro;
    • Verbale, con minacce, intimidazioni;
    • Psicologica, tramite ricatti affettivi, atteggiamenti di rifiuto, indifferenza, svalutazione, denigrazione;
    • Sessuale;
    • Economica, realizzata tramite l’impossibilità di accedere a conti bancari, di disporre di denaro per effettuare spese e pagamenti.

    Tra le definizioni di violenza assistita viene annoverato anche il maltrattamento e l’abbandono di un animale domestico: il figlio che assiste a tali azioni è a tutti gli effetti una vittima di violenza domestica.

    Adulti compromessi

    Dopo avere trattato le forme e le definizioni della violenza assistita intrafamiliare, vorrei evidenziare alcune delle gravissime conseguenze che tali atteggiamenti comportano, su tutti i membri della famiglia.

    Sono i genitori i primi diretti interessati di tali conseguenze:

    • Le forme di maltrattamento familiare inibiscono la capacità genitoriale;
    • I genitori violenti, spesso, credono che mostrare aggressività e superiorità sia segno di una personalità forte e rispettata e ciò viene insegnato, con coscienza, ai figli (sbagliando, chiaramente);
    • I genitori vittime subiscono una distorsione della realtà, minimizzando la gravità delle violenze e negandole;
    • Vi è mancanza di consapevolezza, da parte dei genitori, della situazione di terrore psicologico vissuto dai minori, a contatto con figure di riferimento violente e vittime che non sono da esempio né da aiuto;
    • Mancata capacità di denuncia, di farsi aiutare dai Servizi o da esperti sanitari.

    Mentre i genitori litigano, il tempo passa, le situazioni non cambiano ed i modelli relazionali vengono assimilati dai bambini, soprattutto se di tenera età.

    E’ necessario chiedersi quando la situazione sfugge di mano? Quando ci si rende conto che è troppo tardi?

    Minori danneggiati

    Diverse sono le conseguenze della violenza assistita intrafamiliare sui bambini che vi partecipano, nello specifico:

    • Fisiologiche: si presentano disturbi psicosomatici (gastrointestinali, asmatici, ansiosi, allergici, eczemi), problemi relativi alla crescita, coordinazione motoria, disturbi alimentari, del sonno;
    • Cognitive: ritardi del linguaggio, dell’apprendimento a scuola, distrazioni, scarso impegno, mancata motivazione
    • Socio-comportamentali: fare molte assenze scolastiche o ritirarsi, mostrare scatti di ira, collera, rabbia, aggressività verso i compagni o verso gli animali, buttarsi in situazioni di pericolo, non rispettare le regole imposte;

    Mentre il bambino vive situazioni di silenzio ed isolamento tra le mura domestiche, aumenta il rischio di comportamenti aggressivi nell’ambiente scolastico, relativi al fenomeno del bullismo.

    Adottare un atteggiamento opportunista e manipolatorio e mettere in atto comportamenti violenti con i pari e verso gli insegnanti è un modo per scaricare la tensione presente a casa.

    • Conseguenze emotive: ansia, depressione, sentimenti di colpa, stato costante di allarme o paura, poca autostima, isolamento, vero e proprio terrore.

    Lesioni psicologiche

    Il bambino che assiste ad atti di violenza sulla madre, ad esempio, si sentirà impotente e incapace, sentimenti tipici di una età di crescita.

    Soprattutto nei bambini più piccoli è frequente sentirsi responsabili dei conflitti tra genitori: i piccoli si ripetono “è colpa mia”, si sentono inadeguati e insofferenti.

    Con le proprie risorse, il bambino cercherà di capire cosa sta succedendo e cosa poter fare per migliorare la situazione ed aiutare la propria famiglia a mantenere un ambiente sereno.

    La lesione psicologica ed il trauma causato al bambino vittima di violenza assistita intrafamiliare è tanto grave quanto più frequenti e violenti sono gli attacchi a cui assiste e tanto minore è la sua età.

    E’ importante citare il Disturbo Post Traumatico da Stress: si tratta di un disturbo correlato a eventi traumatici e stressanti, che si può manifestare dopo l’evento, anche a distanza di molto tempo.

    I sintomi includono iperattivazione e disturbi del sonno, situazioni di evitamento, flashback, trattato da professionisti psicoterapeuti.

    Il rischio di un futuro violento

    Le conseguenze sui bambini che assistono alle forme di violenza domestica sono durature e permanenti, se non immediatamente riparate.

    Vedere la propria madre vittima di violenza ed atteggiamenti vessatori spiazza un figlio che vede la propria figura di riferimento come debole e non più protettiva; ciò consiste in un trauma significativo. 

    Vediamo insieme, nello specifico, quali possono essere i rischi per il futuro adulto:

    • Perpetrare atteggiamenti violenti come unico modello di relazione appreso;
    • Considerare la superiorità come una forma di rispetto;
    • Ritenere la donna come soggetto debole e da disprezzare;
    • Mantenere relazioni instabili con le donne;
    • Sviluppare relazioni con uomini aggressivi e non gestire gli stati di rabbia;
    • Avere maggiori probabilità di rimanere vittime di abusi, di dipendenze e comportamenti aggressivi nell’adolescenza;
    • Sentirsi insicuri, ansiosi, depressi;
    • Ripresentare nella propria famiglia futura, modelli educativi violenti o di discredito.

    I bambini spettatori interiorizzano i sensi di colpa per ciò a cui assistono e per un equilibrio famigliare rotto, senza riuscire a farsene una ragione.

    Il bagaglio che si porteranno dietro, pieno di sofferenze celate, sarà sempre troppo pesante, se non saranno in grado di chiedere aiuto.

    Doveri e responsabilità genitoriali: cosa dice la Legge

    Abbiamo già trattato, in un precedente articolo, della responsabilità genitoriale per la crescita dei figli e favorire il loro benessere.

    I genitori non solo sono tenuti a mantenere, istruire ed educare i figli come definito dall’art 147 e 315 codice civile bensì anche a tutelare, assistere e proteggere i minori.

    Il nostro ordinamento prevede un controllo sulla capacità genitoriale: la Legge riconosce, innanzitutto, la possibilità per il giudice di:

    • Dichiarare la decadenza della responsabilità genitoriale “quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio” (art. 330 c.c.);
    • Limitare la responsabilità genitoriale, quando la condotta del genitore è comunque pregiudizievole al figlio (art. 333 c.c).

    La Legge è stata molto preziosa con l’emanazione del Decreto legge n. 93 del 14 agosto 2013, che sancisce una circostanza aggravante della violenza domestica, nel commettere tali atti in presenza di un minore.

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